Manca poco. Non c’è più tempo. Sono gli ultimi istanti, questi. Eccoli. Stanno arrivando. Stanno venendo a prenderti. È finita. Come sarà morire? Un dolore intenso? O di un attimo? Così che all’improvviso tutto si fa nero.
È la voce della fine che parla. Quella di chi sa per certo che la sua vita finirà da un momento all’altro, di chi sta per scontare una condanna a morte.
La morte di un uomo voluta da un altro uomo, decisa per una causa considerata importante o per una pena ritenuta giusta. Da ieri a oggi, che sia per motivi politici o per ragioni di giustizia, la condanna a morte è la più terribile condanna che l’umanità rivolga a se stessa.
Carta e inchiostro, gli unici agganci alla vita
In quei momenti che lo separano dall’esecuzione, il condannato affida le sue ultime parole a un foglio. Quel ritaglio di carta rimediato diventa il suo unico strumento di sfogo, il confidente inaspettato e prezioso. E l’inchiostro che impregna quella carta è l’unico legame possibile con i suoi cari.
Inspiegabilmente, in quegli ultimi concitati momenti, riesce a ridare ordine ai suoi pensieri e a consolare i propri figli o genitori, trasmettendo loro la forza per andare avanti.
È così vero quello che sostiene Emil Cioran quando afferma:
Non si scrive perchè si ha qualcosa da dire, ma perchè si ha voglia di dire qualcosa.
Se potessi leggere la vera calligarfia di quelle lettere, anche a distanza di anni, sono certa che in quei tratti sentiresti l’angoscia che attanaglia quel cuore, il nervosismo di quelle mani che scrivono, il dolore di quegli occhi che piangono per una fine decisa da altri uomini e non da Dio.
Non sarebbe un semplice leggere, il tuo. Sarebbe piuttosto vivere tutte le emozioni che quelle parole racchiudono, come se fossi lì in quella cella nello stesso momento in cui vengono scritte.
Entriamo tra quelle righe
Per un attimo immagina di essere nel 1945. Il 9 febbraio.
In una sporca e umida prigione, tu e Lorenzo Viale, uno dei tanti partigiani catturati dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Prima che un freddo colpo di fucile metta fine alla sua vita, scrive la sua ultima lettera:
Carissimi,
una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. […] La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. […] Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. […] Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene.
Un caro bacio ed abbraccio,
Renzo
Nella sua delicata disperazione l’ultimo pensiero è rivolto tanto ai cari, quanto alla causa. Combattere per liberare l’Italia dall’oppressore è stato così importante da volerne lasciare un segno indelebile anche oltre la morte.
Settant’anni dopo, le modalità d’esecuzione cambiano, ma non il destino di un condannato.
Siamo in Texas. Uno dei 37 stati americani in cui la pena di morte esiste ancora e quello con il maggior numero di condanne eseguite.
Tra i tanti nomi di condannati spunta quello di Ray L. Jasper, giustiziato, dopo 14 anni di reclusione nel braccio della morte, con una dose letale di pentobarbital. Era il 19 marzo 2014. Accusato d’omicidio, Ray prima dell’iniezione letale così grida la sua innocenza e rivela l’atrocità della condanna:
Mi stai dando una tela vuota su cui sfogarmi. La riempirò con quello che ho nel cuore. […] Io sono nel braccio della morte ma non ho commesso nessun omicidio. Sono stato giudicato colpevole per la «Law of parties». […] La «Law of parties» permette allo stato di giustiziare una persona che non ha commesso l’omicidio ma che viene considerato complice. Verrò ammazzato con iniezione letale. In quell’intruglio di medicinali ce ne sono alcuni considerati illegali. Non si può usare per uccidere i cani, ma per noi uomini sì.
Lo stesso anno, in Iran è una giovane donna ad essere condannata a morte. A nulla sono valsi gli interventi di Papa Francesco e Amnesty International. Un cappio intorno al collo, spasmi di sofferenza e poi solo un corpo inerme: così è stata spezzata la giovane vita di Reyhaneh Jabbari, accusata di aver ucciso l’uomo che aveva tentato di stuprarla.
Il suo ultimo messaggio alla madre e al mondo è carico di tutto il dolore per la fine che l’attende. Ma c’è molto di più. C’è l’estremo, accorato aiuto di chi un aiuto reale non ha potuto ottenerlo quando era ancora in vita.
Cara Shole,
Mi sento ferita, perché non mi avevi detto che sono arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. […] Non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio cuore giovane diventino polvere. Supplicali perché subito dopo la mia impiccagione, il mio cuore, i reni, gli occhi, le ossa e qualunque altra cosa possa essere trapiantata venga sottratta al mio corpo e donata a qualcuno che ne ha bisogno. […] Fai del tuo meglio per dimenticare i miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via.
Avevi mai letto una di queste lettere? Che le parole fossero potenti, si sa. Ma quando a pronunciarle è un’anima privata del suo futuro, la loro forza scuote ogni coscienza.