Rapa Nui: un disastro ecologico ante litteram

Isola di Pasqua

Anche tu, come me, con l’arrivo dei primi freddi inizi a sognare mete calde ed esotiche, spiagge bianche e acque cristalline? Lascia che ti racconti di un posto che generalmente associamo a questo tipo di vacanze ma che in realtà nasconde un profondo segreto nel suo passato e rappresenta un oscuro monito per il nostro futuro.

L’Isola di Pasqua, Rapa Nui nella lingua del luogo, è una piccola isoletta vulcanica situata nel Pacifico sudorientale appartenente al Cile. Sì, è proprio l’isola famosa per le gigantesche teste di pietra sparse lungo la costa.

Quando nel 1722 l’olandese Jacob Roggeveen vi sbarcò nel giorno di Pasqua si ritrovò in un ambiente particolare, molto diverso dal resto delle isole tropicali scoperte fino a quel momento: la flora era caratterizzata da erbe e piccoli arbusti, i pochi animali presenti non vi risiedevano stabilmente (ancora oggi non ci sono mammiferi terrestri non importati dall’uomo e gli uccelli non marini si contano sulle dita di una mano… e avanza anche qualche dito) ed era abitata da un gruppo abbastanza nutrito di indigeni che si mostrarono sin dall’inizio amichevoli con il conquistatore occidentale. E poi c’erano le enormi teste di pietra piantate nel terreno.

Si pensò subito che quei poveri indigeni avessero scelto davvero un posto poco ospitale per vivere e che l’arrivo degli europei con le loro provviste di cibo doveva essere stato per loro una sorta di miracolo. In realtà le testimonianze dell’epoca ci raccontano che gli abitanti dell’isola erano più interessati ai cappelli degli occidentali che al loro cibo. Inoltre un altro dubbio attanagliava le menti dei conquistadores: senza alberi, quindi senza tronchi, come erano riusciti a spostare le enormi teste di pietra? Chi o cosa era riuscito a piantarle nel terreno? Dubbio che è giunto fino ai nostri tempi e che, secondo alcune teorie, ha visto l’intervento di forze extraterrestri.

Negli ultimi anni però, gli studi sui reperti fossili e sui resti dell’epoca precedente all’arrivo degli europei hanno fatto emergere una verità ben diversa. Non solo sono stati trovati i fossili di ben sei specie di uccelli autoctone dell’isola ora scomparse, ma l’isola era completamente ricoperta da una fitta vegetazione costituita principalmente da palme alte anche 20 metri.

Quando Hotu Matu’a (il Grande Genitore, il primo secondo la tradizione a colonizzare l’isola) vi approdò insieme alla moglie e ai sei figli, dopo un lungo e pericoloso viaggio in mare a bordo di canoe non proprio stabilissime, si ritrovò in un ambiente ricco e florido, che permise lo sviluppo di una comunità numerosa e variegata.

È proprio a partire da questo momento che gli studiosi parlano del primo collasso ecologico della storia causato dall’uomo: una piccola isola, dall’equilibro delicato ma fino a quel momento più che stabile, si ritrovò invasa da un gruppo di uomini, che aumentava di giorno in giorno e che iniziò a disboscare per poter coltivare (e probabilmente i tronchi delle palme ebbero un ruolo chiave nello spostamento delle enormi teste) e a cacciare le specie animali indigene, abituate a non avere nessun nemico naturale pronto a ucciderle.

Ben presto quindi la situazione sull’isola cambiò profondamente, la terra impoverita non era più in grado di produrre frutti e l’isola assunse l’aspetto desolato e semi desertico che la caratterizza ancora oggi. Alcuni studiosi inoltre affermano che il collasso ecologico portò a una situazione di penuria di cibo e di stress sociale che scaturì in una guerra civile interna, che ridusse di gran lunga il numero di clan presenti sull’isola. In realtà ci sono alcuni dubbi riguardo le cause del collasso. Infatti, se è indubbio che l’azione dei primi indigeni ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda, non si possono escludere altri fattori quali l’arrivo precedente e non documentato di altri colonizzatori europei (portatori di malattie) e il susseguirsi di particolari eventi climatici estremi.

Studiando sempre i resti fossili, altri studiosi danno la colpa del collasso ai topi. Sembrerebbe infatti che, insieme ai primi indigeni, dalla Polinesia siano arrivati anche dei ratti particolarmente voraci di semi, germogli e uova. Forse ci può consolare l’idea che ben presto i ratti divennero una delle principali fonti di cibo della popolazione, insieme al pesce.

Probabilmente non riusciremo mai a sapere con certezza se la colpa di questo disastro ecologico ante litteram è da attribuire ai topi o agli uragani, quello che è certo è che l’uomo ha avuto un ruolo fondamentale. La storia dell’Isola di Pasqua ci dimostra che un utilizzo sbagliato delle risorse naturali non porta a niente di buono e che, una volta superato il limite, è impossibile tornare indietro e correggere la situazione.

C’è un altro campanello di allarme che risuona in maniera pericolosa: le testimonianze dei primi europei parlano di una popolazione autoctona tranquilla e felice, non stremata dalla fame (con tutti quei topi! 🙂 ). Gli indigeni si erano infatti abituati a quella situazione, ne avevano tirato fuori i lati positivi ed erano riusciti a sopravvivere. Sarà forse anche il nostro destino? I cambiamenti climatici attuali sono sempre più frequenti e anche noi iniziamo ad abituarci, spesso girando la testa dall’altra parte, ma ci basterà il solo sopravvivere?

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